In occasione del Dantedì nell’anno in cui si celebrano i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta ti propongo un bellissimo guest post sulla lingua di Dante. L’autrice è Valentina Iosco, che diffonde l’amore per Dante e le sue opere attraverso una pagina Instagram di grande successo nata durante il lockdown (@ioedante). Valentina ci guiderà nella Firenze medievale attraverso le parole: dalla lingua dei mercanti, a quella degli uomini di cultura, a quella della Divina Commedia. Scoprirai una città vivacissima dal punto di vista linguistico e la grande eredità che ci ha lasciato la lingua di Dante, le cui espressioni poetiche sono entrate nel linguaggio comune e noi utilizziamo senza conoscerne l’origine.
Indice
Che lingua si parlava a Firenze tra Duecento e Trecento?

Crescita economica e affermazione dei volgari
La coniazione del fiorino nel 1252 e la battaglia della Meloria del 1284 sono due eventi che sanciscono l’avvio della supremazia di Firenze sul territorio toscano. All’industria della lana si affiancano numerose altre attività manifatturiere e artigianali, organizzate attorno a una struttura nucleare chiamata compagnia.
L’espansione delle attività mercantili si intreccia all’affermazione dei volgari italiani: era fondamentale per il mercante saper leggere e scrivere in volgare per amministrare i propri affari e al tempo stesso avere una conoscenza di base del latino per riuscire a leggere gli atti notarili. Impossibile non pensare al passo in cui Leon Battista Alberti (Genova 1404 – Roma 1472) afferma «essere officio del mercatante» avere sempre «la penna in mano» e «le mani tinte d’inchiostro».
Latino, lingua della cultura. E il volgare?
A Firenze svolsero un ruolo fondamentale nella possibilità di accesso alla cultura da una parte i frati domenicani di Santa Maria Novella, dall’altra i francescani di Santa Croce. Un ulteriore punto di riferimento era costituito da giudici e notai, che ogni giorno mediavano tra due culture e due lingue: il latino e il volgare.
Qualsiasi sentenza, decisione pubblica e atto privato viene scritto solo in latino, che è la lingua della legge, così come al tempo di Dante il latino è anche la lingua della Chiesa, della cultura e delle università. Il notaio scrive in latino e davanti a sé trova persone che non conoscono questa lingua, ma hanno bisogno di atti notarili, come nel caso di matrimoni e testamenti. Avveniva dunque che il notaio leggesse in latino, ma poi traducesse in volgare. L’attività di mediazione e traduzione dei notai si estende anche ai testi letterari, tanto è vero che essi tra Duecento e Trecento sono i volgarizzatori per eccellenza: traducono opere latine per il popolo che conosce e usa solo il volgare.
Dante cresce e si forma nella Firenze della seconda metà del Duecento quando la città «la città è nel pieno della sua espansione economica e sociale e il volgare, favorito da una crescente alfabetizzazione, va imponendosi a tutti i livelli, sia negli usi pratici sia in quelli letterari» (Manni 2013: 27).
La lingua di Dante e l’origine dell’italiano

La lingua della Divina Commedia: dai latinismi ai volgari
Dante piega il mezzo espressivo con maestria per esprimere la realtà a qualsiasi livello, dalla concretezza violenta dell’Inferno, alla luminosità beata del Paradiso. Non mancano nei numerosi dialoghi i dialettalismi, che oltre a caratterizzare la provenienza delle anime, arricchiscono il lessico del poema. Passiamo a osservare tre esempi, uno per ogni cantica, di inserti alloglotti e di latinismi:
Issa
«[…] ché più non si pareggia ’mo’ e ‘issa’»
Inferno XXIII, v. 7
Significa ‘ora’ ed è un avverbio di tempo che deriva dal latino ipsa ora. Nel momento in cui scrive Dante è una forma tipicamente lucchese, che connota la provenienza di Bonagiunta da Lucca.
Giuggiare
«e io la cheggio a lui che tutto giuggia»
Purgatorio XX, v. 48
Giuggiare è un gallicismo che significa ‘giudicare’: in francese jugier e in provenzale jutjar. Viene pronunciato da Ugo Capeto, re di Francia vissuto tra il 941 e il 996, il quale chiede vendetta a colui che tutto giudica, cioè Dio.
Plenilunio
«Quale ne’ plenilunïi sereni»
Paradiso XXIII, v. 25
Il termine ‘plenilunïi’ eleva l’espressione «luna tonda» presente nel canto XX dell’Inferno. Si tratta di un composto dal latino di plenus «pieno» e luna «luna».
La ricchezza lessicale dantesca che comprende i termini più concreti e quotidiani come «ghiottone», «muffa» e «sudore», per arrivare a dotti latinismi come «laco» e «tralucare», ha lasciato una traccia indelebile nella nostra storia linguistica e culturale.
La lingua di Dante oggi: espressioni e neologismi danteschi di uso comune

Ci sono espressioni inventate da Dante o da lui rese famose che utilizziamo ancora oggi, magari senza esserne rendercene conto. Scopriamo insieme le più diffuse.
Far tremar le vene e i polsi
«[…] mi fa tremar le vene e i polsi»
Inferno I, v. 90
Questa espressione viene utilizzata ancora oggi per indicare qualcosa che scatena in noi un grande spavento. Dante la usò per riferirsi al terrore che provò nel vedere la terza e più paurosa fiera: la lupa.
Senza infamia e senza lode
«[…] l’anime triste di coloro | che visser sanza ’nfamia e sanza lodo»
Inferno III, vv. 35-36
Si dice “senza infamia e senza lode” di qualcosa che non è particolarmente degno di nota. Dante definì così la vita degli ignavi, i quali non presero mai posizione e per questo motivo sono ora continuamente sollecitati da mosconi e vespe.
Il gran rifiuto
«vidi e conobbi l’ombra di colui | che fece per viltade il gran rifiuto»
Inferno III, vv. 59-60
Sebbene sia una questione ancora discussa, colui che fece il gran rifiuto sarebbe da individuare in papa Celestino V, che si dimise nel 1294 dopo appena pochi mesi di pontificato. Questa espressione è entrata nell’uso comune, tanto che comparve in molti titoli di giornale quando nel 2013 papa Benedetto XVI decise di lasciare il soglio pontificio.
Cosa fatta, capo ha
«[…] Capo ha cosa fatta»
Inferno XXVIII, v. 107
La diffusione di questa espressione proverbiale nella nostra lingua si collega a un episodio storico preciso, avvenuto a Firenze nei primi mesi del 1216. Buondelmonte dei Buondelmonti, cavaliere di una nobile famiglia fiorentina, non rispetta l’impegno di sposare una ragazza degli Amidei. Questi ultimi si incontrano per escogitare la vendetta con altri fiorentini, tra cui Mosca de’ Lamberti, il quale suggerì come soluzione l’omicidio aggiungendo la frase “Capo ha cosa fatta”.
Nell’italiano antico “cosa fatta capo ha” significa che ogni azione intrapresa ha una conseguenza, e implicitamente suggerisce che l’esito non è facile da prevedere. Nell’italiano contemporaneo si è slegato dall’episodio dell’omicidio di Buondelmonte e significa che un’azione, quando viene compiuta, ha sempre un capo, ovvero uno scopo preciso.
Stare freschi
«là dove i peccatori stanno freschi»
Inferno XXXII, v. 117
Il nono e ultimo Cerchio è costituito dal lago ghiacciato di Cocito, in cui sono imprigionati i traditori. Il vento provocato dallo sbattere delle ali di Lucifero rende il punto più profondo dell’Inferno non caldo, ma gelido.
Bel Paese
«vituperio de le genti | del bel paese là dove ‘l sì suona»
Inferno XXXIII, vv. 79-80
Il bel paese là dove ‘l sì suona è l’Italia, detta così per il suo volgare in modo analogo alla Francia del nord, dove si parlava la lingua d’oïl, e alla Provenza, dove si parlava quella d’oc. Oïl e oc sono i due avverbi che in quelle lingue si usano per dire «sì».
Inurbarsi
«Non altrimenti stupido si turba | lo montanaro, e rimirando ammuta, | quando rozzo e salvatico s’inurba»
Purgatorio XXVI, vv. 67-69
La coniazione di questo verbo viene attribuita a Dante e ha il significato di entrare in città provenendo dalla campagna o dal contado. Lo utilizza nel Purgatorio per riferirsi al montanaro che quando entra in città ammutolisce nell’ammirare ciò che solitamente non vede. Oggi può indicare il trasferirsi dalla campagna in città o l’incivilirsi, cioè fare proprie consuetudini e modi cittadini.
Quisquilia
«così de li occhi miei ogni quisquilia | fugò Beatrice col raggio d’i suoi»
Paradiso XXVI, vv. 76-77
Si incontra questa espressione nel canto XXVI del Paradiso. Ci troviamo nell’VIII Cielo delle stelle fisse e assistiamo a un momento toccante: Beatrice restituisce la vista a Dante eliminando ogni impurità dai suoi occhi. Se il significato antico di quisquilia era da associare a impurità e imperfezione, oggi invece passa a indicare una minuzia, una cosa di poco conto.
Dalla lingua si può capire molto di una società. Così come dai luoghi comuni presenti nella letteratura:
Per approfondire
- Frosini, Inventare una lingua, Note sulla lingua della Commedia. Contributo pubblicato per la prima volta online in occasione della mostra: Il collezionismo di Dante in casa Trivulzio (4 agosto-18 ottobre 2015).
- Manni, La lingua di Dante, Bologna, Il Mulino, 2013.
- Tomasin, Dante e l’idea di lingua italiana, in Letture Classensi, Volume 41, Dante e la lingua italiana, a cura di Mirko Tavoni, Ravenna, Longo Editore, 2012.
- https://www.treccani.it/
- https://www.treccani.it/enciclopedia/mercanti-e-lingua_(Enciclopedia-dell’Italiano)/

Ciao! Mi chiamo Valentina, ho 25 anni e vivo al confine tra Umbria e Toscana. Studio Filologia Moderna presso l’Università per Stranieri di Siena e ho una grande passione per Dante. A maggio 2020, mentre stavo preparando un esame sul Purgatorio, ho deciso di creare su Instagram uno spazio dantesco chiamato @ioedante. Il mio obiettivo è quello di trasmettere agli altri la passione per Dante Alighieri e abbattere quella barriera che a volte ci allontana da lui. Infatti, che sia stato amore a prima “terzina o che ci si sia avvicinati pian piano, sono convinta che non sia mai troppo tardi per leggerlo e studiarlo. Questo perché Dante parla ancora ai nostri animi e per ascoltare ciò che può dirci, anche a settecento anni di distanza, dobbiamo coltivare la passione con tanto studio e incessante curiosità.