Scrivere romanzi storici non è affatto semplice e accanirsi sugli autori che compiono errori è ingiusto verso le ore passate a fare ricerca, scrivere, correggere, riscrivere. In alcuni casi però gli errori o imprecisioni che si trovano nel testo devono essere segnalate, perché consegnano ai lettori una visione della storia falsata rispetto alla realtà, in cui il gusto o le idee dell’autore deformano gli eventi storici. Questo è il caso di «Annibale» di Gisbert Haefs. I riferimenti delle pagine presenti nell’articolo si rifanno all’edizione pubblicata da Marco Tropea Editore nel 1999; più recente è invece la riedizione di Neri Pozza (“Annibale”, Gisbert Haefs, 2021).
Una premessa fondamentale. “Annibale” di Gisbert Haefs non mi è piaciuto e non sono riuscita a finirlo, anche perché nonostante il titolo sia “Annibale” il protagonista è un commerciante greco-punico che narra la sua storia, che si intreccia in alcuni punti con quella del generale cartaginese.
Sapevo già in partenza che non mi avrebbe entusiasmato perché su internet avevo letto delle recensioni perplesse dall’assoluta parzialità del racconto che trasformava i romani in una spietata macchina di morte e non avevo difficoltà a immaginare quello che l’autore avrebbe potuto scrivere, ma ho deciso di leggerne dei pezzi perché mi interessava il grande spazio dato alla città di Cartagine e alla sua cultura.
Gisbert Haefs si è infatti documentato bene a riguardo; tuttavia avrebbe dovuto impegnarsi un po’ anche per capire meglio Roma. È vero che nella devastante mole di lavoro che deve aver affrontato c’era poco spazio per entrare nel dettaglio della fazione avversaria, che comunque chiaramente non gli interessava. Tuttavia, allora avrebbe dovuto astenersi da giudizi così tranchant che più che la rappresentazione del pensiero dei cartaginesi sconfitti e amareggiati sembra una sua interpretazione volontariamente distorta della storia.
Qui scriverò quindi solo dell’ambientazione storica e tralascerò una valutazione sulla trama o sullo stile, che peraltro non è affatto male. Purtroppo in “Annibale” Gisbert Haefs decide di impiegare la sua abilità scrittoria in particolare per uno scopo; disprezzare i romani.
«Annibale» di Gisbert Haefs: recensione e analisi storica
Niente odio, solo amarezza: la lotta per la sopravvivenza dei cartaginesi

La storia inizia con Annibale in fuga dai romani che pretendono la sua consegna per ucciderlo. È anziano, lontano dalla patria e potrebbe apparire come uno sconfitto bilioso se si accanisse sui vincitori romani. L’autore provvede allora a elevarlo subito dalle meschinità terrene e gli fa dire subito nel prologo, dopo sole sei pagine e mezzo che è apparso:
«Non ho mai odiato Roma.» (p.23)
Non è l’unico. Neanche suo padre Amilcare, generale nella prima guerra punica, era maldisposto verso Roma:
«Io non voglio annientare Roma… credo che avrei adoperato ogni mezzo in mio possesso per raggiungere un accordo di pace.» (p. 84)
In realtà, non si trova un cartaginese o un loro alleato che voglia fare del male a Roma:
«Non vogliamo distruggere Roma, ma solo costringerla alla pace indebolendola; Roma vuole eliminarci con una guerra di annientamento.» (p. 452).
Insomma, i cartaginesi combattono le guerre contro i romani quasi per caso, o meglio ancora, per salvare il mondo dall’impero del male in agguato.
I romani e la guerra totale

Roma pianifica la sottomissione mondiale
Annibale parla con amarezza, come se suo malgrado avesse dovuto combattere contro i romani non perché desiderava per Cartagine un grande impero che dominasse il mediterraneo occidentale, ma perché aveva tentato di proteggere il mondo da un pericolo mortale come la città laziale.
Invece all’epoca nessuno poteva prevedere l’espansione di Roma. Lo storico greco Polibio scrisse le sue Storie (II secolo a.C.) proprio per tentare di spiegare quegli eventi che nel giro di cinquantadue anni portarono Roma a conquistare quasi tutto il mondo conosciuto e che avevano lasciato sgomenti i contemporanei.
Nemmeno i romani potevano immaginarlo e al tempo delle guerre puniche la politica di guerra procedeva a strattoni, cambiando ogni anno a seconda degli uomini che salivano al consolato. Non tutti erano convinti dell’inizio della guerra contro Cartagine e la famosa frase del «Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata» indica proprio l’indecisione e le profonde divisioni all’interno del senato sul come muoversi. Roma non era un «monolito», come scrive l’autore, con l’unico obiettivo, da sempre, di sottomettere tutto il mondo.
I romani pianificano anche genocidi
Già dalla prima guerra punica il piano di Roma è conquistare il mondo, ma se questo ancora non bastasse, secondo Amilcare a questa si accompagna la pianificazione della distruzione sistematica di tutte le civiltà nemiche:
E quando in tutta l’ecumene non rimarrà più neanche una traccia di pensieri e costumi diversi da Roma, solo allora, forse, saranno soddisfatti (p. 84)
Qui si ha davvero l’impressione che in “Annibale” Gisbert Haefs stia pensando a una civiltà diversa da quella dell’antica Roma.
Prima di tutto, Roma non ha mai avuto l’intenzione di annientare alcunché perché nella mentalità romana manca l’idea dell’assoluto, come mostra la lingua latina e la loro cultura. Un pensiero astratto di questo genere è più adatto ai greci, per questo i romani non possono nemmeno concepire che si debba sterminare qualcuno di per sé.
I romani non concepiscono l’uomo come un essere dominato da qualità inerenti e immodificabili. Persino nella nobiltà il sangue aveva un’importanza limitata perché se i figli e i nipoti di grandi uomini politici patrizi non fossero riusciti a raggiungere le stesse cariche col tempo lo status di nobile sarebbe diventato insignificante. Allo stesso tempo i figli degli schiavi liberati erano cittadini a tutti gli effetti, perché quello che contava era la tradizione, l’educazione, la cultura, non la natura o il sangue.
A un simile modo di pensare è molto difficile associare quello di pianificazione di stermini culturali o ancor peggio razziali.
Annientamento di ogni diversità o integrazione?
Per capire quanto sia sbagliata l’idea della romanità che annienta di proposito ogni «traccia di pensieri e costumi diversi da Roma» basta pensare agli etruschi, ai greci, a tutte le popolazioni italiche che hanno trasmesso elementi della loro cultura a quella romana, come i sabini, i sanniti e altri ancora. Quegli elementi sono diventati parte integrante di Roma, tanto da esserne simboli stessi di romanità.
Gli etruschi non sono stati sterminati e dire che la cultura è scomparsa è discutibile, visto che è confluita quasi tutta in quella romana. È vero che l’etrusco poi non si sarebbe più parlato, ma gli antichi etruschi non sono diventati schiavi di padroni con la frusta in mano: dal tempo dei re etruschi a quello delle antiche famiglie senatoriali sono stati fin da subito al centro del potere.
E i greci? Dire che i romani abbiano spazzato via la cultura greca è pura follia. Tutti i romani con un minimo di cultura erano perfettamente bilingui, conoscevano la storia e la cultura greca come la propria e hanno accolto la grecità con tanto entusiasmo da terrificare gente come Catone, che pensava che i greci avrebbero preso il sopravvento sui romani in quanto a pensiero e cultura.
Davvero «non rimarrà più neanche una traccia di pensieri e costumi diversi da Roma»?
Cartagine vs Roma: luce vs tenebra

Annibale salvatore dell’umanità
L’Annibale di Gisbert Haefs non solo si dimostra un eccezionale stratega, politico e diplomatico intelligente e uomo di grande valore, come fu davvero, ma si tinge per tutto il libro di un’aura soprannaturale. Addirittura intuisce le potenzialità dello stretto sul Bosforo per farne il centro di un grande impero greco lontano da Roma, con centro la vecchia città di Bisanzio (!) (p. 21). Tra l’altro qui ancora torna la visione dura a morire dell’impero romano d’oriente come qualcosa di estraneo a Roma e al suo impero, come se i greci avessero atteso nell’ombra che Roma declinasse e solo quando i salvifici barbari del nord hanno iniziato a punire i corrotti romani occidentali hanno potuto fondare il loro grande impero. Che i bizantini si definissero romaioi, che fino al VI secolo la lingua ufficiale e corrente nella politica, nella giustizia e in tutti gli affari pubblici fosse il latino e che Giustiniano abbia intrapreso la guerra in Italia per riportare nell’orbita imperiale la terra che aveva dato i natali all’impero e che la sua sia stata una scelta quasi puramente ideologica viene dimenticato troppo spesso.
«Una metropoli per macedoni, sciti, traci, armeni, persiani, mesopotamici, arabi, greci: cento lingue e migliaia di usanze diverse, un’alleanza o un impero, l’unità nella molteplicità, per contrastare il monolito di Roma e la violenza che scatena contro ogni cultura diversa? […] i sandali delle legioni romane avrebbero presto calpestato tutti i cocci. Da quei frammenti avrebbero ricavato a forza le tessere di un unico desolante mosaico.» (p. 21-22)
Annibale può cambiare il corso della storia (p. 29), è vero; ma siamo sicuri sicuri che avrebbe poi creato un impero come Alessandro Magno? O magari ci sarebbe anche riuscito, ma che fine ha fatto l’impero alessandrino? È crollato alla sua morte perché nessuno ragionava come lui.
Una storia di Cartagine alternativa
Cartagine dimostrò una mentalità molto diversa da Roma ed è difficile che un solo uomo, per quanto grande, possa stravolgere il modo di pensare, la politica, l’economia di un popolo intero. Se davvero Cartagine era così portata a inglobare i popoli conquistati, perché aveva un esercito di mercenari? Perché non ha stretto man mano alleanze con le genti che incontrava in modo da far integrare le loro élite con quelle cartaginesi? In fondo Cartagine ne avrebbe avuto il tempo, è antica, anzi così antica da dover ricordare i
seicento anni di una città che era già grande ancora prima che gli avi dei barbari italici ammonticchiassero il primo mucchietto di letame su cui poi sarebbe sorta Roma. (p. 59)
La tradizione vuole che Roma sia stata fondata nel 753 a.C., quindi Cartagine nel 1300 a.C. era già una grande potenza? Com’è che i resoconti dei potenti regni del Vicino Oriente non ne parlano? Egizi, assiri, babilonesi, ittiti e tanti altri avevano creato una rete di alleanze e di rapporti diplomatici degni dell’ONU, eppure la prima «guerra mondiale» dell’antichità del 1275 a.C. è stata combattuta fra egizi e ittiti, mentre le potenze di Mittani, Babilonia e Assiria si tenevano in disparte. Le città fenicie e palestinesi erano appunto città, costantemente sotto la minaccia delle armi del vicino di turno che puntava a uno sbocco sul mare.
La colonizzazione fenicia verso l’occidente avviene tra il IX e l’VIII secolo a.C. e Cartagine inizia a assumere un ruolo di primo piano nel Mediterraneo occidentale a partire dal VI secolo a.C. Verso la fine dell’età del ferro (XII secolo a.C.) l’occidente era costellato di minuscole comunità primitive e persino la Grecia allora era composta da villaggi sparsi che si sarebbero potuti chiamare città solo sette secoli dopo, uno dopo che i romani avrebbero «ammonticchiato letame» su cui costruire la loro città.
Ma poi perché letame? Se proprio voleva denigrare i romani avrebbe dovuto ricordare che l’allevamento intensivo non è stato praticato dai romani fino a moltissimi secoli dopo, quindi non avrebbero neanche avuto abbastanza letame da poterlo ammonticchiare.
L’assoluta inettutudine dei romani nella politica, nei rapporti umani… e nella guerra

Decalogo infinito dei difetti dei romani
I romani poi non hanno senso dell’umorismo, né particolare intelligenza come Attilio Regolo (p. 84) o Quinto Fabio Massimo che si fa mettere nel sacco con facilità imbarazzante dai cartaginesi che a momenti gli ridono in faccia (p. 338). Non si meritano quindi nulla di meglio della sprezzante affermazione del consigliere spartano di Annibale, Sosilo, che dice:
«Ho sempre pensato che fossero ottusi, arroganti e violenti. Ma non che le loro teste fossero tanto piene d’argilla…» (p. 341).
I nomi latini sono stupidi (p. 451) e pure il latino è brutto, che però ovviamente i cartaginesi riescono a farlo sembrare bello:
il latino di Amilcare, invece, era elegante, per quanto possa esserlo una lingua come il latino. (p. 88)
Romani, guerrieri mediocri
I romani in realtà non sanno nemmeno condurre una guerra. I loro successi dipendono da un’incredibile successione di eventi fortunati, che si sono protratti per secoli: evidentemente il popolo più fortunato della storia.
Per esempio l’invenzione dei rostri viene descritta come mezzo di ripiego, perché quei poveretti dei romani sono degli incapaci in mare e quando si trovano a affrontare la flotta cartaginese durante la prima guerra punica cercano affannosamente di rimediare in un modo un po’ buffo e un po’ patetico (p. 49). In generale però si fanno prendere dal panico e combattono in modo disorganizzato (p. 121).
I cartaginesi perdono comunque la guerra perché gli sciocchi politici di Cartagine non li aiutano. È verissimo che i Barca, la famiglia di Annibale, hanno avuto grandi problemi a ottenere quello che serviva loro per condurre la guerra, ma è assurdo far intendere che i romani si siano trovati a vincerla per caso grazie alle decisioni sbagliate di politici corrotti, come se Roma avesse il semplice ruolo di comparsa in una guerra che la riguarda. Inoltre le civiltà non si fanno con un uomo solo e se il ceto dirigente non era all’altezza allora nessun impero poteva nascere, nonostante i sogni veri o presunti di Annibale.
Cartagine d’altronde era esageratamente dura con i generali sconfitti, tanto che potevano rischiare la morte se il Consiglio lo avesse ritenuto giusto. Roma invece era ferocemente dura con i soldati, come con le legioni cannensi che sono state bandite dall’Italia fino a che Scipione non ha permesso loro di riabilitare il loro onore a Zama, ma molto meno con i generali. Il console Varrone fu accolto con comprensione a Roma nonostante gli venisse attribuita la colpa del disastro di Canne: chi è al comando dello stato non può vivere nel terrore di venire ucciso per aver preso decisioni discutibili o si rischia la paralisi.
Padri-padroni: travisamento del sistema di alleanze romano
Inoltre, sempre la stessa storia: Roma viene presentata come una superpotenza dotata di riserve inesauribili di uomini e i cartaginesi con pochissimi soldati, anche se in realtà almeno nella seconda guerra punica i quantitativi non erano poi così diversi.
Ma dove le prendeva Roma le truppe? I soldati mica crescono sugli alberi. Nessuno prende mai in considerazione il motivo per cui Roma aveva tanti uomini: sì aveva conquistato terre, sì aveva colonie. Ma cos’era in confronto ai grandi regni ellenistici e perché Cartagine, che aveva più o meno lo stesso numero di abitanti e sudditi nel suo dominio, faceva tanta fatica a arruolarne? Il sistema di alleanze romane è sempre ignorato, ma d’altronde è difficile comprenderlo se ci si ostina a voler vedere i romani come padroni brutali che godono nel calpestare i loro alleati. Questo peraltro non riuscirebbe a spiegare perché una guerra tra romani e alleati ci sia stata, anche se non perché gli italici volessero liberarsi dal giogo romano e diventare liberi: gli italici volevano la cittadinanza romana o latina (i latini otterranno quella romana e gli italici quella latina, ponendo le basi per uno ‘stato nazionale’ concluso da Cesare e Augusto, che insisterà tantissimo sulla dimensione italica di Roma). Chi si ribella al proprio oppressore perché vuole diventare come lui?
È giusto in ogni caso dire che gli alleati italici non erano trattati da pari dai romani, i quali sostanzialmente ragionavano con un «qui comandiamo noi e voi ci seguite senza fare storie, perché tanto siamo più forti»; quindi ci può stare lo scambio di battute tese tra un etrusco e l’ex console Attilio Regolo (p. 89). Anche se dimostrare aperto disprezzo verso i propri alleati in casa di nemici sembra una mossa davvero poco intelligente. (Ah già, ma i romani sono stupidi.)
Vacilla di più presentare i socii schiacciati dal giogo di Roma. Sembra che durante la seconda guerra punica tutti non vedano l’ora di ribellarsi e se è vero che i celti, non ancora integrati nel sistema romano, quasi tutti i sanniti, i bruzii e molte città greche abbiano abbandonato i romani, sfugge del tutto il funzionamento del sistema di alleanza.
Il rapporto tra romani e italici però è il punto per il quale bisogna essere più indulgenti, perché è terribilmente complesso: studi su studi mostrano risvolti sempre un po’ diversi e qui davvero servirebbe avere alle spalle studi specialistici per comprendere la complessità della politica estera romana. È del tutto normale vedere solo la condizione di dipendenza degli italici rispetto a Roma, ignorando il meccanismo di integrazione delle élite che nel giro di un secolo e mezzo avrebbe portato a una consapevolezza sempre maggiore degli alleati che avrebbero infine preteso e ottenuto la cittadinanza romana.
La seconda guerra punica: tutti gli errori presenti in «Annibale»

Cartagine, combattente riluttante
Nonostante l’associazione Roma-annientamento di ogni cultura e popolo diverso possa essere quantomeno discutibile, continua a essere ribadita, in contrapposizione al dominio moderato e aperto dei cartaginesi. Quando il protagonista punico-ellenico osa dire che in fondo almeno contro i celti pure i cartaginesi non sono sempre i migliori amici che si possano desiderare, Annibale smonta subito le sue argomentazioni.
«Tu sai che non è vero, Tiggo» disse senza asprezza. «Roma distrugge le vecchie istituzioni, noi lasciamo sussistere le loro tribù. Roma costringe tutti a parlare latino, noi impariamo i dialetti iberici. E se Roma non ci avesse costretto ad attuare qualche forma di espansione, noi non saremmo neanche qui.» (p. 344)
I cartaginesi sono costretti a espandersi, per colpa di Roma. Mica sono interessati ai vantaggi economici di una terra ricca di oro e argento come l’Iberia, né dei vantaggi commerciali che garantivano gli empori in un territorio a cavallo del Mediterraneo e dell’Oceano! Chi ci bada proprio a queste sciocchezze, quando è in atto una lotta per la propria sopravvivenza che solo incidentalmente finisce col sottomettere altri popoli, proprio come fa Roma?
Inoltre il discorso di Annibale non può essere pronunciato nel III secolo a.C. perché Roma non ha ancora la forza per fare niente di quello che dice. Si può applicare in parte a partire dal secolo successivo, ma soprattutto dal I secolo a.C. in poi: lì sì che l’imperialismo sfrenato darà il «meglio» di sé. Ma adesso nessuno può nemmeno immaginare quello che i romani saranno in grado di fare e le anticipazioni del futuro si possono spiegare solo con la conoscenza della storia successiva che ha l’autore e che non dovrebbe filtrare nel romanzo, a meno di non far apparire tutti come visionari.
Sempre, sia che si tratti di Amilcare o di Annibale o in generale dei cartaginesi, sembra che Cartagine combatta solo per cercare la pace dai romani: solo pace si sente nei loro discorsi, addirittura i cartaginesi non sperano di vincere la guerra, ma solo di convincere i romani alla pace, come se fossero coinvolti nelle ostilità loro malgrado.
Questa idea raggiunge la sua massima espressione con l’assedio di Sagunto e il successivo scoppio della guerra, per cui vale spendere due parole in più perché bisogna ammirare la bravura di Gisbert Haefs che riesce a capovolgere con il resoconto storico per portare acqua al suo mulino.
L’assedio di Sagunto e le oscure ragioni dei romani
L’assedio di Sagunto, durato otto mesi, non viene descritto: il capitolo 10 si apre con la città devastata dal saccheggio di cui però si tacciono le violenze. Sembra che siano stati colpiti solo gli edifici che ora fumano, anche perché i sopravvissuti compaiono nella seconda riga, come a dire che in fondo i cartaginesi non sono stati invasori troppo crudeli. L’elemento più sconcertante però è la descrizione dell’inerzia romana quando Annibale ha deciso di attaccare Sagunto.
Sagunto si era alleata con i romani dopo la stipula del Trattato dell’Ebro che delimitava le sfere d’influenza cartaginese e romana in Iberia e si trovava in una posizione scomoda perché, filoromana, si trovava nel territorio sotto controllo punico. Gli storici sostengono che Annibale l’abbia attaccata proprio per creare un casus belli per dare il via alla guerra contro Roma, che avrebbe dovuto difendere la città alleata ma si sarebbe trovata con le mani legate dal trattato: se i romani avessero soccorso Sagunto, avrebbero infranto le condizioni del trattato, mettendosi dalla parte del torto e consegnando ai cartaginesi il pretesto legale e morale per iniziare una guerra; se non l’avessero aiutata, avrebbero mancato al loro ruolo di leader, rischiando di incrinare il rapporto con gli altri alleati. La storia dice che il senato, dopo lunghe e penose consultazioni, aveva deciso di non intervenire, abbandonando Sagunto al suo destino.
Perché? Perché sapevano bene che rompere il patto sarebbe equivalso a dichiarare guerra a Cartagine e il senato era spaccato riguardo al comportamento da tenere con la città punica. Se anche ci fosse stata una fazione dedita anima e corpo alla distruzione di Cartagine, non era la sola e al momento dell’assedio di Sagunto non era nemmeno maggioritaria.
Nel suo “Annibale” Gisbert Haefs come può conciliare quindi i tentennamenti in politica estera di Roma con l’immagine dei romani che cercano sempre e comunque lo scontro con Cartagine? Non si sa. O meglio, i cartaginesi non si spiegano il comportamento dei romani, che avevano fatto valere il rapporto di alleanza che li legava a Sagunto e poi, misteriosamente, avessero rinunciato a aiutarla. Le ragioni romane non possono che apparire imperscrutabili, perché se si volessero indagare apparirebbe ovvio che in senato aveva prevalso, per il momento, il partito della non belligeranza, che si sarebbe scontrato in pieno con tutto quello che si è detto e mostrato di Roma fino a quel momento.
Non è finita lì, perché non una parola viene spesa sul perché Annibale abbia attaccato Sagunto. La città viene solo presentata come grande e ricca e sarà pur vero che le ricchezze avranno fatto gola e Sagunto si trovava nel territorio che dominavano i cartaginesi, ma è incredibile che nessuno abbia considerato i problemi che sarebbero insorti con Roma aggredendo una città alleata. E visto che tutto il libro è un panegirico dell’intelligenza e della capacità strategica di Annibale, sarebbe davvero sorprendente credere che non ci avesse pensato. Invece tutto tace e si insiste solo nella bizzarria romana che prima dice che Sagunto è sua alleata, poi non interviene, poi chiede a Cartagine l’estradizione di Annibale per evitare una guerra e alla fine ottenendo un rifiuto dichiara guerra ai cartaginesi.
Ah! Visto che allora sono i romani quelli che cercano sempre la guerra?
In ogni caso, dopo aver per l’ennesima volta ribadito quanto i romani siano ossessionati dall’idea di dominare il mondo e i bravi cartaginesi cerchino un modo per difendersi, Annibale sorprende tutti con la decisione di marciare in Italia attraverso le Alpi. Questo è realistico, perché tutti devono averlo giudicata un’impresa folle e votata al suicidio; quello che non lo è, è presentare la guerra contro Roma e l’Italia come una scelta forzata dovuta al comportamento aggressivo dei romani. In fondo, Annibale non vuole attaccare i romani. Lo fa perché è costretto.
Incomprensioni della strategia militare romana
I cartaginesi appaiono come trascinati in guerra contro i loro desideri anche nelle pagine successive, in cui la descrizione degli eventi differisce tanto dalla storia da far assomigliare il romanzo più a un fantasy che a uno storico. Lo stato maggiore di Annibale infatti si riunisce un po’ sgomento dalla piega che hanno preso gli eventi e ragionano sul da farsi (pp. 371-376). Il discorso inizia con una clamorosa incomprensione del sistema in cui i romani gestiscono le guerre, perché quando viene riferito che ai due consoli in carica sono state assegnate l’Iberia e l’Africa, il commento è:
«Come se il mondo appartenesse a loro e se lo potessero spartire a piacimento.» (p. 372).
Detto così sembra infatti che prima ancora di iniziare la guerra i romani avessero già deciso che quei territori sarebbero diventati loro, tanto più che quando iniziavano le ostilità il senato assegnava ai consoli le provinciae: e le province sono le zone assoggettate ai romani, no? Nì, perché in origine provincia non ha il significato di regione sottoposta al dominio romano, ma indica invece un compito: assegnare come province l’Iberia e l’Africa significa che i consoli dovranno condurre lì la guerra; scelte abbastanza ovvie, visto che Annibale in quel momento si trova in Iberia e Cartagine è in Africa. E se ancora non si fosse convinti che provincia non indichi semplicemente un territorio che si vuole far diventare romano, basti pensare che quando Annibale arriverà in Italia spesso verrà assegnata come provincia «la guerra contro Annibale»: il generale cartaginese non è certo un luogo geografico.
Ci sono poi altre imprecisioni sulle legioni. Annibale presenta la centuria (60 uomini) come l’unità base della legione, mentre in realtà è solo quella più piccola e la vera unità strategica di base è il manipolo (due centurie = 120 uomini).
Critica poi la rigidità delle legioni perché ancora ancorate al sistema della falange greca (pp. 416-417), un unico blocco compatto a differenza della tattica manipolare che può contare sulla manovrabilità di unità mobili più piccole. La riforma delle legioni in questo senso in realtà era già iniziata almeno un secolo prima e anche se il perfezionamento dell’esercito romano si avrà un secolo più tardi con la riforma di Mario, all’epoca della guerra contro Annibale la legione era già divisa per manipoli; forse non usati ancora al massimo del potenziale, ma erano presenti fin dal tempo dell guerre sannitiche (IV-III secolo a.C.).
Tuttavia qualche volta i romani non sono emeriti imbecilli
Durante gli eventi della seconda guerra punica finalmente i romani sembrano mettere un po’ di sale in zucca, tanto che Annibale riconosce l’abilità di Publio Cornelio Scipione padre e che i romani resisteranno a ranghi compatti, anche fino alla morte (pp. 397-398).
Spesso Annibale ribadisce che non possono sperare di vincere facilmente i romani, anche perché si tratta di cittadini e non mercenari.
Questa invece è una critica giusta, che non è un complimento, ma se non altro è fondata. Ben descritto è infatti lo stupore cartaginese per la radicata superstizione romana che davvero mette paura ai cittadini tanto quanto gli eserciti nemici in casa propria, perché i sacerdoti diffondono storie terrificanti di statue che sanguinano, bambini nati deformi, folgori che cadono da tutte le parti e ogni tipo di prodigio più o meno sensato che il gusto per l’orrido dei romani poteva concepire (pp. 425-426).
Ai romani piace vincere facile
Se si sono usate 500 pagine per descrivere l’obbrobrio di Roma, solo pochi paragrafi inframmezzati da tristi considerazioni sul destino malvagio raccontano la rivincita romana dopo la battaglia di Canne, la quale avrebbe portato a una vittoria che appare come inevitabile, anche se non lo era affatto. Non un cenno del 210 a.C., l’anno in cui la guerra è sembrata più incerta, tanto quanto l’anno stesso della catastrofe di Canne.
Tutto viene ridotto banalmente alle «curiose vie traverse della storia», come se fosse un caso che i romani non fossero collassati dopo tutte le terrificanti sconfitte subite, come se le coalizione romana non avesse retto nonostante la disperazione, i tentativi di ribellione e le aperte defezioni, come se solo la forza bruta e il fanatismo cieco e ottuso avesse guidato nei secoli la politica del senato. Tranne Scipione, i generali e politici romani sono citati uno a uno solo per disprezzarli e sinceramente la lettura diventa insostenibile.
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«Annibale» di Gisbert Haefs: in conclusione

I riferimenti alla cattiveria congenita dei romani sono troppi per poteri elencare tutti. È impossibile dire che i romani non volessero le guerre e che si siano trovati per caso a guidare un impero: ma tacere il lungo e complesso percorso che li ha portati fin lì e i motivi per cui ci sono riusciti significa prendere una posizione ben precisa, accettando di ignorare enormi porzioni di storia.
Soprattutto non ha senso presentare i romani come degli sterminatori seriali. Se anche non si vuole concedere loro un briciolo di umanità, bisognerebbe almeno riconoscergli il grande senso pratico che li contraddistingueva.
Semplicemente avrebbero pensato che non c’era bisogno di compiere genocidi uccidendo fino all’ultimo nemico: sarebbero stati solo costosi, faticosi e inutili, visto che sarebbe stato molto meglio trasformare i vinti in sudditi che pagavano le tasse anziché in cadaveri dal quale non si può più ricavare niente.
È vero, i romanzi storici non devono essere saggi; ed è vero, nell'”Annibale” di Gisbert Haefs la storia è presentata dal punto di vista cartaginese e si può solo immaginare tutto l’odio e il disprezzo che provassero per i romani. Se però si vuole procedere su questa strada, meglio sarebbe stato inserire un prologo in cui inventare la scoperta di una nuova fonte cartaginese, l’unica salvatasi dalla distruzione romana, che presenterebbe una verità alternativa. Poteva essere ucronia o anche solo romanzo storico, ma in cui apparisse chiaro che questa è una libera interpretazione. Così invece appare una semplice mistificazione.
Non bisogna essere storici per scrivere un romanzo storico: ma neanche dei falsari.
Per approfondire
In una recensione a un romanzo storico non inserisco riferimenti bibliografici, perché sono opere di fantasia e bisogna usare un metro di valutazione diverso dalla saggistica. Chi tuttavia volesse approfondire l’argomento sui testi scientifici può contattarmi all’email del blog per avere una lista di consigli di lettura.
Hai letto questo romanzo? Avevi notato gli errori elencati in questa recensione di “Annibale” di Gisbert Haefs? Cosa pensi di un contesto storico così manipolato dall’autore?
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Complimenti per l’articolo, un po’di meno all’autore del libro. Annibale che non vuole la guerra somiglia più al generale esausto che parla con Scipione prima di Zama, piuttosto che il ragazzo che giura odio eterno a Roma. Le inesattezze che hai sottolineato sono inaccettabili in un romanzo storico. Non mi pare che ci sia stata grande ricerca storica da parte dell’autore. Io adoro Annibale, ma sicuramente non quello che presenta l’autore del libro
Grazie mille, Matteo! Esatto, è difficile riconoscere l’Annibale storico in questo personaggio dell’animo quasi pacifista. Anche se non si volesse credere all’episodio del giuramento fatto da bambino, gli eventi della seconda guerra punica parlano da sé. E i romani sembrano dei cattivi da B movie.